mercoledì 24 febbraio 2010

Realtà e Finzioni

Nell'ultimo anno, più o meno dall'uscita di Nessun ricordo, sono al lavoro su un paio di fumetti in particolare, e in verità avrei anche buttato giù parecchie altre idee che probabilmente, qualora si presentasse l'opportunità, diventeranno dei fumetti o altro oppure resteranno nel cassetto in attesa di chissà che. Ma una delle cose che mi assilla come autore è l'approccio con la realtà, dico assilla anche se mi sembra esagerato, ma è così poiché la mia scrittura si fa trascinare anche dalla fantasia e dall'invenzione a ruota libera. Immaginare, seguire quel che la fantasia mi suggerisce è qualcosa di cui non riesco e non voglio fare a meno nella scrittura. Attivare il mio punto di vista sulle cose. Mescolare realtà e finzione alla maniera di Jorge L. Borges è quello che più mi affascina e che mi piace maggiormente nello scrivere, suscita curiosità e domande, ti costringe a studiare, fa pensare e del resto mi diverte molto. Negli ultimi tempi, a proposito di etichette, si fa un gran parlare del fumetto di realtà, ma non solo, anche di letteratura di realtà, di cinema di realtà e via discorrendo. Questo è un pezzo di realtà che altrimenti resterebbe nascosta, dicono. E' un atteggiamento presuntuoso, secondo me, poiché tende a svalutare come finto tutto il resto. Premesso che a mio parere non si possa eludere la realtà che ci circonda come autori, d'altro canto non si può nemmeno ritenerla affidabile come etichetta, nell'era della comunicazione tutto tende alla finzione, come sosteneva James G. Ballard l'unica realtà possibile è quella che costruiamo dentro di noi, attraverso noi, e allora mi pare azzardato parlare di realtà in senso assoluto, poiché se il racconto coincide col documento la narrazione non esiste. Non esistono racconti di realtà, poiché di racconti si tratta l'autore sarà sempre e comunque presente, a mediare, a decidere cosa come e quando. L'obiettività nel racconto esiste solo rispetto all'autore, alle sue intenzioni, alle sue urgenze narrative, non alla realtà di partenza.

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Faccio qualche esempio. L'eternauta di Oesterheld è realistico? Non in senso stretto, poiché l'invasione aliena non è mai accaduta in concreto, eppure non conosco nulla di più vero delle cose narrate in quell'opera. Se ci spostiamo ai giorni nostri, consideriamo i fumetti di Andrea Bruno: sono realisti? Non credo esista nulla di più visionario nel fumetto contemporaneo. Eppure le sensazioni che ci trasmette sono dannatamente collegate alla realtà che ci circonda. In conclusione, prima di parlare di fumetto di realtà, romanzo di realtà cercate di non fermarvi alla superficie, ma andiamo più a fondo a scoprire come stanno le cose, oltre l'insipido resoconto autobiografico (che per altro trovo sempre molto noioso). Buone letture, GM

sabato 20 febbraio 2010

La responsabilità dell'autore

Intanto che sono impegnato a scrivere nuovi fumetti... vi segnalo e vi propongo un'interessante intervista a Luigi Bernardi apparsa sul sito di Nazione Indiana. Superfluo sottolineare che condivido in pieno le sue idee? Chi ha letto i miei fumetti conosce già la risposta, gli altri potranno rimediare con la lettura.

1.

Come giudichi in generale, come speditivo apprezzamento di massima, lo stato della nostra letteratura contemporanea (narrativa e/o poesia)? Concordi con quei critici, che denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea?

Non credo si possa parlare di mancanza di vitalità, quanto di assenza di direzione, o meglio ancora di offuscamento di direzione. Scrittori capaci in Italia ne abbiamo in buona quantità, solo che non sempre riescono a produrre opere di qualità. La ragione mi sembra vada cercata nella etichettatura che la critica e gli stessi autori si sentono in dovere di appiccicare alle loro opere, in una sorta di divisione a priori che crea branchi all’interno dei quali molti si rifugiano per sottrarsi alle proprie responsabilità individuali. Etichette – peraltro risibili a partire dagli stessi nomi, come New Italian Epic, New Realism, Post Noir – che spostano il problema dall’opera in sé all’appartenenza della stessa: un sintomo almeno di immaturità, la sola qualità di cui non può fregiarsi la letteratura. Un altro problema mi sembra quello della paura che molti scrittori hanno di non essere consolatori, di non offrire uno sguardo positivo del mondo intorno. Prendo per esempio uno dei titoli migliori della scorsa annata, Accabadora di Michela Murgia: a due terzi del romanzo l’autrice compie una svolta ardita e poco credibile, solo per arrivare a un finale che al cinema si direbbe lieto. La redenzione non è un obbligo della letteratura, è una mistificazione della realtà.

2.

Ti sembra che la tendenza verso un’industrializzazione crescente dell’editoria freni in qualche modo l’apparizione di opere di qualità?

Le opere di qualità appaiono comunque, il problema semmai è quello della visibilità e della pigrizia/ottusità dei lettori che scelgono di leggere sempre gli stessi autori, che a loro volta riscrivono sempre lo stesso libro. L’industria editoriale propone quell’intrattenimento che i lettori cercano. Oggi scrittori come Berto e Parise farebbero fatica a pubblicare, per non parlare di Pasolini. Il buco nero nel quale siamo precipitati è tutto qui. Per avere successo, o anche solo visibilità, ci si deve travestire da giullari. Alcuni ci riescono molto bene, anche perché giullari lo sono per davvero.

3.

Ti sembra che le pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali rispecchino in modo soddisfacente lo stato della nostra letteratura (prosa e poesia), e quali critiche faresti?

Le pagine culturali vivono di polemiche, si gettano a capofitto a creare anche loro divisioni, appartenenze. Le recensioni sono in diminuzione, a tutto vantaggio delle anticipazioni: pur di parlarne per primi non ci si dà neppure il tempo di leggere un testo. C’è poi l’ottusità dei critici che non vanno oltre la loro conventicola di amici e conoscenti, un altro fattore di divisione. Le pagine culturali sono ormai troppo spesso “veline” a favore di questo o quello. Il danno è enorme, questo sì epocale. Quando lavoravo all’Einaudi, nel corso di una telefonata con Paolo Repetti ci inventammo il Noir Texano, solo perché in quei giorni uscivano un libro di Lansdale, scrittore texano, e uno di Crumley, scrittore del Montana che aveva ambientato un romanzo in Texas. Io mi aspettavo che i redattori della pagine culturali ci sbugiardassero, e ce la saremmo meritata. Invece l’inesistente Noir Texano si guadagnò i suoi articoli pieni di niente.

4.

Ti sembra che la maggior parte delle case editrici italiane facciano un buon lavoro in rapporto alla ricerca di nuovi autori di buon livello e alla promozione a lungo termine di autori e testi di qualità (prosa e/o poesia)?

Gli editori italiani, nel loro complesso, svolgono un buon lavoro di selezione. Il problema nasce nella fase di promozione, alla quale soltanto pochi libri hanno diritto, e quasi sempre i peggiori, i più innocui. Un altro problema, di cui non si parla o si parla troppo poco, è l’espulsione dal mercato degli scrittori anziani. Nessuno punta più di loro, e molti trovano difficoltà a pubblicare, anche scrittori che hanno dato molto alla narrativa nazionale, penso per esempio a Giuseppe D’Agata di cui mi sono occupato a più riprese. Ci sono scrittori anziani “bolliti”, ma ce ne sono anche di vivi e rabbiosi, emarginati per il solo fatto che, data l’età, non costituiscono un buon investimento.

5.

Credi che il web abbia mutato le modalità di diffusione e di fruizione della nostra letteratura (narrativa e/o poesia) contemporanea? E se sì, in che modo?

Il web ha creato ottime occasioni di discussione e di visibilità, anche se troppo spesso ha dato origine a polemiche senza fine e di nessuna utilità. Il web è una grancassa dove ognuno può dire quello che vuole e dove ciascuno può sentirsi scrittore solo per il fatto di avere qualche testo disponibile per la lettura. La rete assomiglia per molti versi a quella caricatura di democrazia che sono le assemblee di condominio, dove tutti parlano nello stesso tempo e ciascuno pensa di avere ragione.

6.

Pensi che la letteratura, o alcune sue componenti, andrebbero sostenute in qualche modo, e in caso affermativo, in quali forme?

Credo che l’unico sostegno decente, non assistenziale, sarebbe la creazione di un sistema bibliotecario funzionante, che acquisti libri in quantità e riconosca agli autori una royalty sui singoli prestiti. Mi pare inoltre auspicabile, soprattutto per la scarsa rilevanza della nostra lingua a livello planetario, un intervento inteso a favorire la traduzione dei testi italiani all’estero. Infine, ovviamente, è imprescindibile un taglio agli sconti praticati sui prezzi di copertina da parte delle grandi catene e dal mass market: è l’unico modo per salvare le piccole librerie che spesso sono l’ultimo baluardo per l’editoria di qualità.

7.

Nella oggettiva e evidente crisi della nostra democrazia (pervasivo controllo politico sui media e sostanziale impunità giuridica di chi detiene il potere, crescenti xenofobia e razzismo …), che ha una risonanza sempre maggiore all’estero, ti sembra che gli scrittori italiani abbiano modo di dire la loro, o abbiano comunque un qualche peso?

La mia idea è che gli scrittori parlino troppo, firmino troppe petizioni (talora in palese contrasto con le loro scelte editoriali), si atteggino a salvatori di niente, quando poi le loro opere sono incapaci di lasciare il segno, di essere lo specchio di quello che siamo diventati. L’unico peso che lo scrittore può avere nella società è attraverso la scrittura, attraverso la pubblicazione di opere di riferimento, magari centrate sugli stessi temi che sembrano stare loro molto a cuore quando firmano una petizione.

8.

Nella suddetta evidente crisi della nostra democrazia, ti sembra che gli scrittori abbiano delle responsabilità, vale a dire che avrebbero potuto o potrebbero esporsi maggiormente e in quali forme?

L’unica responsabilità che si può imputare a uno scrittore è quella di scrivere brutti libri. In questo senso, molti e forse troppi scrittori italiani hanno grandi responsabilità, soprattutto quando finiscono con l’anteporre la speranza e la redenzione a quella che sarebbe la logica conclusione delle loro storie. In questo credo che la responsabilità sia anche degli editori e degli stessi lettori, che pretendono falsità e consolazione (in una parola: evasione) laddove nella vita quotidiana accettano di subire qualsiasi iattura.

9.

Reputi che ci sia una separazione tra mondo della cultura e mondo politico e, in caso affermativo, pensi che abbia dei precisi effetti?

La cultura e il mondo politico devono viaggiare sulle stesso binario ma in direzione contraria, andare verso lo scontro. Ma se proprio non vogliamo evocare l’immagine disastro, diciamo almeno che la cultura dovrebbe essere la coscienza critica del potere politico, invece troppo spesso ne è vassalla, non foss’altro che per la continua di richiesta di contributi e di assistenza.

10.

Ti sembra opportuno che uno scrittore con convincimenti democratici collabori alle pagine culturali di quotidiani quali “Libero” e il Giornale, caratterizzati da stili giornalistici non consoni a un paese democratico (marcata faziosità dell’informazione, servilismo nei confronti di chi detiene il potere, prese di posizione xenofobe, razziste e omofobe …), e che appoggiano apertamente politiche che portano a un oggettivo deterioramento della democrazia?

Non credo che a sinistra ci siano i buoni e a destra i cattivi: è una semplificazione alla quale uno scrittore non può aderire. Da parte mia, le più grandi delusioni umane le ho ricevute da persone che ostentavano l’etichetta di uomini di sinistra. Questo non impediva loro comportamenti arroganti, mafiosi e imbecilli. Il problema dell’Italia, e ritorno alla risposta alla prima domanda, è nella mafiosità dei branchi, che si respira e si subisce a ogni livello. Ben vengano quindi le contaminazioni, le irruzioni in territorio nemico, lo sparigliamento, la confusione: almeno forniscono materia al pensiero.